Sofia Corradi - Mamma Erasmus

Mostre e Cataloghi

di Sofia Corradi
Mostre di artisti giovani
Arte totale e critica totale
Arnaldo Ginna
Giovanni Acquaviva
Enzo Benedetto, Johannis, Survage
Richard Teschner
La fotografia
I ciociari Bragaglia e Valente
Altre mostre
Virgilio Marchi
Occultismo e avanguardia
Ivo Pannaggi
Critico d’arte?
Una innata curiosità intellettuale
I quadri di Sciltian
Il detective del futurismo
Arti senza frontiere
Altre mostre di opere futuriste

Corradi: Molti dei tuoi contributi sono stati occasionati dalla richiesta di artisti che tu scrivessi una presentazione delle loro opere, o la  prefazione a cataloghi di mostre. Si tratta di numerosi interventi e vorrei che tu ne parlassi.
Verdone: Per quanto io abbia considerato sempre come mia attività principale quella svolta nel campo dello spettacolo, tuttavia è fuor di dubbio che i contatti e gli interessi riguardanti gli artisti e le arti figurative in genere sono stati molto precoci. Infatti, mentre da apprendista giornalista già scrivevo articoli, anche su quotidiani, su artisti del passato (quali Rutilio Manetti, Francesco di Giorgio Martini, Simone Martini, Baldassarre Peruzzi, e tanti altri geniali senesi) dimostrando quindi un interesse anche per la storia dell’arte, allorché mi trovai all’università e fui nominato Addetto Culturale del GUF mi preoccupai anche di organizzare mostre di artisti giovani. Le mostre non erano soltanto un servizio che io facevo con mia soddisfazione ad amici che  frequentavo a Siena, ma era la dimostrazione della seria considerazione che io avevo delle loro opere.
Corradi: Questo rientra nella tua caratteristica di sempre, di essere incapace di aiutare o lodare qualcuno che tu non stimi veramente. Non sai mentire. Se un artista o uno spettacolo non ti piace, anche se per non dare dispiacere a qualcuno ti proponi razionalmente di trattenere le critiche o di fare qualche diplomatico apprezzamento, poi il tuo pensiero autentico ti sfugge e questo è un tuo tratto di personalità: non sai dire le bugie. Allo stesso modo quando eri a Siena e organizzavi mostre di giovani artisti non lo facevi per fare un piacere a degli amici.

1. Mostre di artisti giovani

Verdone: No, l’intenzione era di rendere - in un certo senso - un servizio all’arte, a valori che, appartenendo a dei giovani, erano in crescita, acerbi, ma che riconoscevo autentici. La prima mostra che organizzai a nome del GUF di Siena la tenni nei locali “gentilmente concessi”, dal Circolo dei Bancari, in Via dei Termini, a Siena. Organizzai la mostra di Raffaello Arcangelo Salimbeni perché avevo capito che mi trovavo di fronte a un artista eccezionale e la convalida è venuta, purtroppo molto più tardi; ma di recente ho avuto una forte conferma del valore di questo artista.

Corradi: Cioè, quando hanno collocato - dopo quasi mezzo secolo di oblìo - la sua statua della Elettrice Palatina in una degna cornice,  vicino alle Cappelle Medicee, a Firenze.
Verdone: Al tempo della sua prima mostra ovviamente Salimbeni era molto giovane. Disegnava e scolpiva, ma i disegni erano soprattutto figurativi con qualche lieve intenzione espressionista. Enzo Carli parlò favorevolmente della mostra di Salimbeni nella rivista “Emporium” di Bergamo. Organizzai anche le mostre di altri due pittori e scrissi di loro: erano Giacinto Fiore ed Emilio Montagnani. Giacinto Fiore si è poi trasferito a Roma e ha fatto anche a Roma mostre che ho presentato in Catalogo. Poi le sue vicende sono state sfortunate, come quelle di Salimbeni, purtroppo anche come quelle di Emilio Montagnani, sia per le difficoltà pratiche, ma soprattutto, per quel che riguarda Fiore e Montagnani, a causa della loro salute: tutti e due hanno sofferto di malattie atroci e sono morti in maniera dolorosa.
Un altro artista di cui mi occupavo - e ne ho già parlato ampiamente - era Piero Sadun che è stato uno dei miei più grandi amici dell’adolescenza. Piero non aveva bisogno del mio appoggio perché era di un valore indiscusso e critici d’arte come Cesare Brandi ne valorizzavano le opere con articoli e mostre. Anche per Piero Sadun sono stato presentatore di una mostra alla galleria La Medusa di Roma, allorché insieme avevamo creato “L'Associazione degli Amici del Circo”; anzi, a dire il vero, il promotore ero stato io, ma lui entusiasticamente mi aveva seguito.
Corradi: Sbaglio o la bellissima carta intestata dell’Associazione Amici del Circo (di cui ho visto qualche foglio) è stata fatta da Toti Scialoja?
Verdone: Si. Chiesi a Scialoja di fare la carta intestata, e ne disegnò una deliziosa - quella che tu hai visto - che mostra una ballerina sul cavallo, con la scritta in azzurro, sulla carta bianca, “Gli Amici del Circo”. La  sede dell’associazione era indicata a Lungotevere Vallati n. 2, Roma, cioè all’indirizzo di casa mia. Ma Scialoja mi fece anche una serie di una ventina di disegni per un fascicolo speciale della rivista “Sequenze” di Parma, diretta da Luigi Malerba. Il fascicolo speciale era stato curato da me ed era intitolato Il cinema comico. Nei disegni Scialoja aveva raffigurato scherzi, torte in faccia, cadute, clowns bianchi, augusti, cioè clowns straccioni, e via dicendo. Anche Salimbeni mi fece una serie di disegni sul circo e io li pubblicai sulla rivista “Bianco e Nero”. Quando  diventai redattore di tale rivista illustravo spesso il fascicolo con tanti “finalini” che mi facevo fare dagli artisti che frequentavo. Ormai non eravamo più in un ristretto ambiente provinciale, eravamo a Roma, si trattava di una rivista importante e io feci fare i finalini sul tema della danza da Scialoja, sul tema del circo da Salimbeni e da Stradone, sul tema del cinema espressionista da Piero Sadun, sul tema della nuova Roma (che si sviluppava oltre San Paolo) da Ciarrocchi. Ricordo che furono in molti a collaborare a questa rivista con loro fregi o disegni: Alfio Castelli, Emilio Montagnani, Giacinto Fiore, Domenico Cantatore, e anche mio cognato, Gastone Schiavina. I più interessanti furono i disegni di Piero Sadun, Toti Scialoja, e Raffaello Salimbeni.
Corradi: In un certo senso, però, anche per Piero Sadun sei stato tu quello che ha organizzato la prima mostra, in quanto gli hai pubblicato i suoi disegni come illustrazione del tuo libro Città dell’Uomo, e questa è stata - per così dire - la sua prima “prestazione” in pubblico.
Verdone: Tornando alle mostre, una esposizione importante fu quella di Piero Sadun, che si svolse, come già detto, alla Medusa di Roma. Era una mostra dedicata esclusivamente a temi circensi: c’è un clown, ci sono dei “volanti”, dei costumi per acrobati, il costume per Darix Togni, celebre domatore, e ci sono anche scene di circo fra cui una ispirata dai fratelli Cavallini. Questa fu la mostra di Piero Sadun che io presentai in un bel depliant, tipograficamente raffinato, curato dallo stesso artista. Molti di quei quadri oggi sono di mia proprietà.
Piero ebbe poi diverse mostre, che riscossero successo, sia “personali”, che “in collettiva”, e alla Biennale di Venezia. Molto più tardi (nel 2001) è venuta una mostra interamente a lui dedicata, nella Galleria Edieuropa di Lidio Bozzini, a Roma, intitolata Piero Sadun dall’espressionismo all’astrattismo, e da me presentata.

2. Arte totale e critica totale

Dopo le prime mostre pittoriche, che dapprima riguardavano soltanto i miei amici senesi, fui preso completamente dal cinema e trascurai un po' questo settore, che però in seguito dovevo riprendere con molto slancio, specialmente quando incrementai i miei studi sul Futurismo. Siccome il Futurismo veniva trattato o come attività di artisti pittori e scultori o come attività di scrittori o come attività di architetti, ma nessuno cercava di collegare tutte queste attività in un discorso unitario, il discorso unitario mi provai a farlo io stesso - credo tra i primi - con il libro Che cos’è il futurismo pubblicato attorno al 1970 con la Casa Editrice Astrolabio. Un libro - ma questo l’ho già detto - che ha avuto fortuna perché immediatamente fu tradotto in Spagna e poi in altri Paesi.
Studiando “che cosa è il Futurismo” e dedicando capitoli particolari alla scultura, alla pittura, all’architettura, al cinema, alla poesia, alle tavole parolibere, alla politica, all’arredamento, ecc., ovviamente io non studiavo il Futurismo da un solo punto di vista, sotto un solo aspetto, ma cercavo di vederne tutte le sfaccettature. Lo studiavo globalmente secondo le mie idee sull’arte totale ereditate da Ricciotto Canudo e sviluppate nella mia concezione di critica totale. Ero completamente preso dagli studi sul cinema e soprattutto sul cinema d’avanguardia. Ma il cinema d’avanguardia non era fatto da cineasti nati  cineasti. Il cinema d’avanguardia era fatto spesso da esponenti di altre espressioni artistiche: era fatto da Fernand Léger, pittore, da Marcel Duchamp, pittore e scultore; fra gli italiani era fatto, per esempio, da artisti come Arnaldo Ginna, che io per primo ho rivalorizzato, e che anzitutto era un pittore; era fatto da Pippo Oriani,  pittore. Quindi il punto essenziale era che nell’avanguardia io vedevo tutte le arti affratellarsi e compenetrarsi, proprio secondo la concezione di Marinetti, che superava l’idea ottocentesca di Baudelaire il quale aveva detto che c’è una “corrispondenza” tra le varie arti. F.T. Marinetti invece - come mi sottolineava, nei nostri colloqui, Benedetta Cappa Marinetti - vedeva la “compenetrazione” fra le varie arti. Questo si può considerare un “passo avanti” che aveva compiuto Marinetti e che con i suoi manifesti faceva fare agli artisti di tutto il mondo.
 
3. Arnaldo Ginna

Occupandomi di cinema soffermai la mia attenzione su Anton Giulio Bragaglia, che era soprattutto regista teatrale, ma che aveva realizzato anche dei film e aveva teorizzato  il fotodinamismo. Scrissi un primo libro su Anton Giulio Bragaglia, e come regista teatrale, e come regista cinematografico, e come responsabile di idee che riguardavano il fotodinamismo, idee suggerite magari da attività di fotografi precedenti, come Marey, il quale faceva delle cronofotografie che secondo me potevano essere considerate già delle fotodinamiche ante litteram. Quando frequentavo Anton Giulio Bragaglia da vivo - perché scrissi la monografia nel 1964, quattro anni dopo la sua morte -  mi disse: «Tu che ti interessi tanto del cinema d’avanguardia dovresti fare una bella chiacchierata con Arnaldo Ginna, perché è lui che ha fatto il primo film futurista intitolato, appunto, Vita futurista».
Cercai Arnaldo Ginna, lo cercai al Ministero del Turismo e dello Spettacolo, ma non ne faceva più parte come funzionario perché era in pensione, lo cercai sull’elenco telefonico, ma non trovai nulla. Finalmente ebbi un indirizzo di Via Monti Parioli, e questo l’ho già raccontato (nel Capitolo VII). Il contatto con Arnaldo Ginna fu interessante per più aspetti, anzitutto perché mi chiarì in che cosa consisteva il suo film Vita futurista, di cui non esistevano più copie. Mi spiegò pure che qualche anno avanti, nel 1912, - mentre Vita futurista è del 1916, - con suo fratello Bruno Corra aveva realizzato dei film dipinti a mano, film astratti che venivano da loro chiamati esperimenti di “musica cromatica”; cioè interpretavano, per esempio, un brano di Mendelssohn o di Debussy, o addirittura una poesia di Mallarmé, con pellicole dipinte a mano. Era un lavoro allo stesso tempo e di pittura e cinematografico. Questi film, se oggi esistessero, avrebbero un valore “storico” perché sarebbero i primi esempi di film astratto. Purtroppo nel 1944 le pellicole, che erano nella casa di Bruno Corra a Milano, furono distrutte dal bombardamento che colpì il palazzo, per cui non ne è rimasta alcuna traccia, salvo un disegno che io posseggo. Fortunatamente nel 1912, lo stesso anno in cui i film furono realizzati, Corra scrisse un lungo saggio sulla “musica cromatica” e in questo saggio venne specificato il lavoro che era stato fatto e i titoli dei film. Lo scritto concludeva: «Ora i rotoli di pellicola sono qui racchiusi in queste scatolette che io metto in un cassetto del mio scrittoio pronti per essere visionati e recuperati dagli storici di domani». I film sono andati distrutti, ma le sue parole - datate 1912 - sono sufficienti per dimostrare che i primi film astratti furono realizzati in Italia. Successivamente Ginna fu autore del film Vita futurista, con la collaborazione di Marinetti, Corra, e altri artisti come Giacomo Balla, Lucio Venna, Emilio Settimelli, Remo Chiti.
Corradi: Dunque uno storico del cinema, come tu principalmente ti consideravi, si è trovato spesso a scrivere di pittura, e, come accennavi, a presentare o intervenire in cataloghi per mostre di artisti che operavano principalmente nel campo della pittura o della scultura.
Verdone: Ginna fu da me avvicinato e rivalorizzato con il libro Cinema e letteratura del Futurismo (del 1967, ristampato nel 1968 e poi nel 1990) in cui mettevo in evidenza soprattutto la sua attività cinematografica. Mi mostrò i suoi quadri e le sue pitture. Realizzai mentalmente che non solo Ginna era importante come pioniere della cinematografia astratta, ma anche come pioniere della pittura astratta. Infatti, dal 1908 aveva dipinto dei quadri astratti come Nevrastenia,  Risveglio a finestra aperta, ecc... Questi quadri, essendo del 1908-10, anticipavano di qualche anno i quadri astratti di Kandinsky che è considerato il “padre” dell’arte astratta. Nessuno mette in dubbio che Kandinsky sia un maestro eccelso. Ginna non è della stessa statura di Kandinsky, però è giusto riconoscere che Ginna aveva fatto quadri astratti prima di Kandinsky, il che non è merito da poco. Non solo ma, come Kandinsky nel 1912 pubblicherà la sua notissima opera sullo Spiritualismo nell’arte, un libro che teorizzava l’arte astratta, così Ginna aveva scritto Pittura dell’avvenire, già nel 1909-1910, un libriccino  apparso in quegli anni in più edizioni (Beltrami, Bologna, 1910). Avendo io persuaso Ginna che egli non doveva trascurare la sua opera nel campo pittorico, non cessai di incoraggiarlo a fare qualche mostra, e ricordo che una ebbe luogo a Macerata. Scendemmo assieme all’Albergo Centrale.
A Macerata, dunque, ci fu una delle prime mostre di Ginna, agli inizi degli anni Settanta, e in seguito ne vennero organizzate altre. Dopo la sua morte ne venne fatta una di maggiore rilievo a Ravenna, sua città natale, e io stesso ne curai il catalogo. In seguito, occupandomi di Ginna non trascurai altri artisti allora considerati minori o addirittura sconosciuti, che erano nel suo giro, e fra questi misi in risalto il valore della pittrice austriaca Rosa Rosà, che era il nome di battaglia di Edith von Haynau. Cominciai a scrivere articoli su disegnatori, caricaturisti, illustratori futuristi, nella rivista di Brescia “Didattica del disegno” diretta da Gaspare De Fiore, nipote di Giuseppe Sprovieri, uno dei galleristi che per primi avevano presentato opere futuriste negli anni attorno al 1910 a Roma.
Mi occupai di grafica futurista e misi in evidenza Ivo Pannaggi, il quale da Oslo mi scrisse ringraziandomi di non averlo dimenticato, giacché si considerava quasi un emarginato, e di avere pubblicato molte riproduzioni delle sue caricature futuriste. Di Pannaggi mi sarei occupato più ampiamente in epoca più recente. Ripescai anche altri futuristi trascurati, sia pittori che scrittori. Ogni futurista che io avvicinavo negli anni Sessanta e Settanta si lamentava di venire negletto, quasi era convinto di avere sbagliato tutto...
Corradi: Sì, ma direi che non sempre se ne lamentavano. Mi hai detto che più volte erano essi stessi persuasi che il loro lavoro dell’epoca futurista fosse privo di valore. Ed erano addirittura sorpresi del tuo interesse per loro e per le loro opere.

4. Giovanni Acquaviva

Verdone: Qualche volta addirittura quasi si vergognavano di essere stati futuristi; lo stesso Ginna inizialmente lo considerava una ragazzata. E invece, secondo me, erano stati così innovatori! In tale epoca io potei rivalutare l’opera di un pittore elbano, ma che era vissuto specialmente a Savona: Giovanni Acquaviva, che avevo conosciuto negli anni in cui vivevo a Siena. A Siena frequentavo la casa di Lorenzo Ercole Lanza, fratello di Giuseppe Lanza Del Vasto, che era stato candidato al premio Nobel per la pace e discepolo di Gandhi. Viveva principalmente in India ma spesso veniva in Italia e a Siena, dove lo incontravo nella casa di Lorenzo, nella quale convergevano un po' tutti gli artisti locali. Salimbeni ed io ne eravamo frequentatori assidui, lo stesso Piero Sadun, era venuto più volte ed anche Acquaviva quando capitava a Siena veniva a casa di Lorenzo Lanza, oppure di un altro amico friulano, Arrigo Musiani, anche lui organizzatore di feste, di cene di artisti e dizioni di poesie nella sua villa detta Paradiso, all’Osservanza.
Acquaviva fece un bellissimo quadro dedicato a Siena e lo pubblicò in un libro, di poche pagine, ma significativo, di Lorenzo Ercole Lanza, dedicato a Siena e a Santa Caterina. Questo dipinto mi piacque talmente che un giorno chiesi ad Acquaviva se me lo vendeva, o comunque se me lo cedeva in qualche modo; ma Acquaviva non lo possedeva più, né sapeva dove era finito. Però, riconoscente dell’interesse che avevo per lui mi dedicò alcune poesie, che pubblicò in una rivista di Mario Gastaldi, edita a Milano, e mi dedicò anche un piccolo disegno colorato con le guglie e le torri di Siena in ricordo del quadro che io desideravo e che non avevo potuto avere. Ad Acquaviva, quando è morto - perché spesso di questi artisti ci se ne ricorda, purtroppo, soltanto quando sono morti - Savona pensò di dedicare una mostra, e fui chiamato per organizzarla. Ho anche curato il catalogo.

5. Enzo Benedetto, Johannis, Survage

Corradi: Anche Enzo Benedetto, quando Isabella Madia è andata a intervistarlo, le ha detto di doverti molta gratitudine.
Verdone: Era stato un futurista degli anni Venti, ed anche lui scontento di venire trascurato. Lo avvicinai e promossi una sua mostra (ne ha fatte poi diverse) con il catalogo da me firmato. Ho frequentato molto Enzo Benedetto, e poiché aveva una bella rivistina, “Futurismo oggi”, ne sono stato assiduo collaboratore, occupandomi in quelle pagine di Vinicio Paladini, di Francesco Cangiullo, di Corrado Forlin, di spettacoli rari come il “18 BL” di Alessandro Blasetti.
Successivamente scopersi nel Friuli il pittore Luigi Rapuzzi, detto Johannis come nome di battaglia, e gli dedicai una mostra. Anch’essa postuma. Purtroppo i suoi collezionisti non erano molto perspicaci, per cui questa mostra fu fatta, il catalogo c’è, e lo firmai, ma da allora di Johannis non se ne è più parlato per la trascuratezza, o la mancanza di strategia di coloro che ne possiedono le opere.
Dopo Johannis mi sono occupato di alcuni artisti stranieri che consideravo meritevoli di molta attenzione. Uno era Léopold Survage, che mi attirava particolarmente perché aveva anche fatto, attorno al 1912, dei tentativi di film astratto. Aveva inventato quello che egli chiamava Le Rythme coloré e aveva dipinto dei cartoni, circa un centinaio, che poi messi uno dietro l’altro erano destinati a diventare un disegno animato. Questo esperimento era piaciuto ad Apollinaire il quale incoraggiava Survage a finire l’opera ed a fare film astratti. Lo presentò anche al produttore Gaumont il quale promise di fargli realizzare il film, ma scoppiò la guerra del 1914 e Apollinaire vi morì quasi subito. Il produttore, ovviamente, in tempo di guerra aveva altro a cui pensare che a un film di avanguardia astratto, che non gli avrebbe reso un soldo, e quindi il film non venne realizzato. Sono rimasti soltanto i cartoni preparatori, ma pressoché dimenticati fino a quando io, inseguendo tutti coloro che si erano occupati di film astratti, arrivai al nome di Léopold Survage. Ebbi fortuna: avevo una grande amicizia con il  Direttore di una rivista di Parigi “La Revue du cinema”, Jean George Auriol, che abitava spesso a Roma, per dei mesi, all’Hotel d’Inghilterra, in Via Bocca di Leone, dove andavo a trovarlo. Facevamo tanti progetti, numeri speciali della rivista, uno dedicato al cinema italiano, uno dedicato a Lubitsch, uno dedicato al costume nel cinema, che abbiamo realizzato insieme. Quindi ero, a quell’epoca, un po' di casa all’Albergo d’Inghilterra, e quando seppi che era giunto Léopold Survage mi feci presentare, lo intervistai a lungo e scrissi per lui (forse verso il 1968), un lungo articolo nella rivista “Carte Segrete” diretta da Gianni Toti.
Quando Survage a Parigi ricevette la rivista ne fu felice e mi scrisse una lettera che diceva: «Caro Verdone sono tanto contento di questo articolo che lei ha pubblicato. Con questo scritto il mio Ritmo colorato ritorna alla vita. Questo è il più bel regalo che io potessi mai ricevere nel giorno dei miei ottanta anni compiuti dopodomani. Léopold Survage». In seguito, naturalmente, lo andai a trovare a Parigi, mi fece qualche dono di disegni, ma mi impegnavo in tutto questo non per avere dei regali. Io vengo anzi sovente rimproverato da chi mi vuol bene perché  troppo spesso i miei sono “atti gratuiti”. Però ne provo tanto piacere che trovo anche giusto farli con assoluto disinteresse. Tuttavia i pittori volevano non poche volte darmi qualche ricordino, a titolo di  gradimento per quello che facevo per loro, per cui ho ricevuto infiniti regali da Scialoja, Salimbeni, Sadun, Fiore, Montagnani, Ginna, Survage, e anche da Ivo Pannaggi di cui parlerò. Quanto a Survage, dopo la sua morte, fui chiamato a presentare, in catalogo, una sua mostra alla Galleria Giulia di Roma.

6. Richard Teschner

Un altro artista che per me fu una “scoperta” si chiama Richard Teschner. Era nato a Karlsbad (oggi Karlovy Vary) e si era trasferito a Vienna. Era un cultore, ma ad altissimo livello, del teatro di marionette. Aveva studiato le marionette Wajang, quelle indonesiane, non in Indonesia, ma ad Amsterdam dove gli indonesiani sono molto presenti, e dove hanno il loro punto di riferimento europeo. Aveva inventato il “Teatro delle figure” che chiamò “Figurenspiegel” (lo specchio delle figure) e diventò un marionettista famoso. Aveva un teatrino quasi casalingo, con non più di sessanta posti, che però era frequentato da pittori come Gustav Klimt, musicisti come Richard Strauss, dall’Arcivescovo di Vienna, da tutta la nobiltà viennese, grossi personaggi e scrittori. Fu un grande marionettista, considerato il “Max Reinhardt” della marionetta, che sviluppò il suo lavoro soprattutto in Austria. Morì verso il 1944, cioè in un momento tormentato: la guerra, le invasioni, la gente che da un Paese passava all’altro, la “cortina di ferro”. Né i Cecoslovacchi, né i Boemi, si occuparono più di Teschner in quanto si era trasferito a Vienna, cioè nella capitale di  un Paese occidentale capitalista mentre la Cecoslovacchia oramai era nell’orbita sovietica. Quindi Teschner fu dimenticato a Karlsbad, oramai diventata Karlovy Vary, e non troppo valorizzato neppure dagli austriaci perché non era un compatriota. Insomma, a quel momento, né gli austriaci né i cecoslovacchi conservavano uno speciale interesse per questo straordinario personaggio.
Ora avvenne che agli inizi degli anni Sessanta, a Londra, presso un antiquario io trovai molte opere di Teschner che però venivano vendute per pochi soldi e io me le comprai quasi tutte. Non erano quadri veri e propri, anche se lui ha dipinto quadri, ma erano bozzetti per films; io ne ho una trentina. C’erano anche litografie che riproducevano la Praga degli anni Dieci, ad esempio, il Belvedere. Oppure c’erano litografie visionarie, uomini in provette ecc., insomma temi magici tipici della Praga di quegli anni, e di scrittori come Kafka o Meyrink. Mi comprai queste opere ed altre, in epoche successive, da cataloghi di antiquariato; per esempio  Kyrler Fletcher mi mandava tutti i suoi cataloghi e appena vedevo qualcosa di Teschner, a prezzi bassissimi, subito telegrafavo e  compravo; per cui possiedo una bella collezione di Teschner.
A Roma, mentre mi interessavo molto del Futurismo e della scenografia futurista, entrai in amicizia con il Direttore dell’Istituto Austriaco di Cultura Walter Zettl, al quale rivelai che avevo tutte queste opere. Mi propose di farne una mostra, che tenemmo all’Istituto Austriaco di Cultura in Viale Bruno Buozzi. Purtroppo non facemmo un catalogo, ma soltanto un elenco ciclostilato delle opere. Zettl aveva mandato la documentazione sulla mostra al Ministero della Pubblica Istruzione austriaco che subito stanziò un finanziamento per rivalorizzare l’opera dell’artista. Walter Zettl chiese che si facesse un documentario e a dire il vero propose che lo facessi io, perché oramai avevo già realizzato una trentina di documentari d’arte, ed ero qualificato per farlo. Ma a Vienna preferirono affidarsi ad un altro documentarista locale il quale fu assai bravo e fece un lavoro eccellente che ebbe molto successo.
Il film venne proiettato per la prima volta alla Biblioteca Albertina (che è uno dei luoghi di cultura più importanti di Vienna) ed io fui invitato a presentarlo, in lingua italiana con un interprete che traduceva. Ovviamente proiettammo il documentario anche a Roma in un’apposita serata e siccome io avevo rapporti con Praga attraverso l’Istituto Italiano di Cultura proposi di fare la proiezione anche a Praga. Questa proposta venne accettata e io lo presentai all’Istituto; dopo di che venimmo in contatto con specialisti della marionettistica a Bratislava e fui invitato ad andare anche in tale città a presentare il documentario. Cosicché, dopo una negligenza pressoché generale durata alcuni decenni, feci conoscere di nuovo l’opera di questo marionettista ma anche pittore, disegnatore di manifesti e copertine, illustratore di libri, insomma un artista di grande versatilità. Come uomo era una figura eccezionale, operava nel campo artistico quasi con spirito sacerdotale. Faceva tutte queste cose come le praticavano certi artisti nel primo Novecento e penso per esempio ai coniugi Sakaroff, che tu hai conosciuto, i quali nel campo della danza, che era la loro arte, lo facevano con tale devozione come se fosse un sacerdozio. E Teschner era una specie di sacerdote del teatro di marionette, della marionetta d’arte. Erano bellissime, quasi delle miniature preziose. Sono ora tutte conservate, e in mostra, nel Museo del Teatro di Vienna; mi pare che anche a Monaco ci sia una sezione di un museo dedicata a Teschner.
Tutto questo è avvenuto dopo la mia riscoperta di Teschner. Su di lui poi ho scritto, nel 1966, per “Bianco e Nero” un saggio che molti considerano, mi si perdoni l’espressione,“straordinario” (così me lo definì in una recensione Giovanni Calendoli) ed è la ricostruzione della vita di Teschner con una ventina di fotografie che fanno capire il valore di questo personaggio di eccezione.

7. La fotografia

I miei interessi per lo spettacolo erano sempre prevalenti e quindi le attività che riguardavano gli artisti, le mostre, le arti figurative, le potrei anche considerare secondarie - anche se non è così - però sono felice di avere avuto la possibilità di fare tutto quello che mi è stato possibile compiere in tale campo. Poi, per un certo periodo non ho molto lavorato in questo settore, cioè gli interessi sono continuati, ma meno per quel che riguarda l’organizzazione di mostre. Non avrei avuto la possibilità di farlo anche per mancanza di tempo, dato che mi caricavo  contemporaneamente di più impegni. C’è stato un periodo in cui scrivevo dalla mattina alle otto fino a mezzanotte e pubblicavo libri come Il teatro del tempo futurista o Prosa e critica futurista. Trascuravo un settore che pure mi interessava molto. Tuttavia avevo sempre inviti a collaborare a nuovi cataloghi od a fare presentazioni: l’ho fatto per Prampolini, Pannaggi, Casa Balla, per il nostro comune amico pittore Eduardo Palumbo, che stimo molto; l’ho fatto per la pittrice Lina Passalacqua, per la scultrice Elvi Ratti, per la pittrice e scenografa Bonizza, per Georges De Camino, per una singolare artista, Crespo, che creava degli altarini e che mi richiamava ai miei studi sul folklore. La Crespo ora continua a produrre, ha successo, ed ha anche fatto mostre all’estero. Ho scritto anche per cataloghi di fotografia, perché quando ho fondato l’Istituto di Scienze dello Spettacolo e della Comunicazione, intendevo occuparmi anche di fotografia; non per niente scrivevo articoli sulla fotografia già negli anni Sessanta e Settanta su riviste d’arte come “Qui arte contemporanea” che ospitò un mio articolo che viene spesso citato e si intitolaFotografie da museo, dove consideravo la fotografia come materiale da museo, e questo sin da  trenta o quaranta anni fà.
Corradi: Cioè quando ancora la fotografia non era considerata, intendo dire generalmente, un’arte di pari dignità rispetto, per esempio, alla pittura o alla scultura; era quasi ritenuta una semplice tecnica di riproduzione e rari erano i fotografi giudicati veri artisti, anche se ovviamente già esistevano i Rodcenko, i Moholy-Nagy, i Ray, i Bragaglia, i Veronesi.
Verdone: Sugli artisti che citi ho scritto saggi su “Bianco e Nero”. Prima di tutto mi sono occupato di Daguerre, che è alle origini della storia della fotografia. Se mi capitava di incontrare personalmente dei personaggi di rilievo in questo settore non mancavo di avvicinarli. Per esempio ho intervistato, e questa è una intervista a cui tengo molto, il fotomonteur tedesco John Heartfield. Gli ho chiesto le origini del fotomontaggio, perché come fotomonteur si dedicava soprattutto al  fotomontaggio, e al fotomontaggio politico. Questa intervista l’ho prima pubblicata sulla rivista “Qui arte contemporanea” e poi nel mio libro Diario parafuturista.
Mi sono occupato anche di altri fotografi, per esempio uno oggi ampiamente noto, ma quaranta o cinquanta anni fà non era altrettanto conosciuto: Enzo Sellerio. Mi seguì quando realizzavo in Sicilia il documentario Immagini popolari siciliane (1952). Alcune tra le prime mostre di Enzo Sellerio le ho organizzate io, tramite il mio Istituto di Scienze dello Spettacolo e della Comunicazione, e con la collaborazione di un mio allievo bravissimo, oggi apprezzato specialista di fotografia, Diego Mormorio, con cui ho anche pubblicato un libro intitolato Il mestiere di fotografo. Con Diego Mormorio abbiamo organizzato mostre di Sellerio a Mazara del Vallo e in altre località siciliane; poi anche a Roma. Sellerio ha fatto tante mostre: fra le prime ci sono anche quelle organizzate da me. Il suo nome è ben conosciuto anche per le Edizioni Sellerio.
Mi sono occupato altresì del ritrattista Maurizio Valdarnini, nonché di Damiano Bianca, ricordato in questo libro. Come pure di Loredana Stucchi, perché insieme abbiamo fatto il libro Maschere italiane. Aveva eseguito le fotografie di attori italiani viventi mascherati da Arlecchino, da Pulcinella, da Pantalone, eccetera. C’era anche - per sollecitazione dell’editore - mio figlio Carlo nelle vesti di Tartaglia. Nel libro ho tracciato un po' di storia delle maschere italiane. Fu un bel libro-strenna, pubblicato dalla Newton Compton. Più tardi ho scritto, ma corredandolo di disegni e stampe, Maschere romane. Ho scritto prefazioni o introduzioni ad altri libri e album fotografici: per Armenia 1910 di Ermakov, La Siena dei nonnidi Luca Luchini, Il circo di Joe Oppedisano, La luce chiusa di Carlo Carletti. Mi hanno chiesto prefazioni per libri fotografici di località della Sabina e del litorale laziale (Palombara, S. Marinella).

8. I ciociari Bragaglia e Valente

Ricordo a parte le mostre di Carlo Ludovico Bragaglia, fotografo e regista cinematografico, i saggi su Anton Giulio Bragaglia e su Arturo Bragaglia, anche lui fotografo. Su Anton Giulio e la fotodinamica avevo già pubblicato un libro nel 1964-1965. Occupandomi di Anton Giulio, di Carlo e di Arturo avevo rilevato con un po' di humour che le enciclopedie parlavano sempre dei tre fratelli Bragaglia e iniziai un mio scritto dicendo che i tre fratelli Bragaglia in realtà, come i tre moschettieri... erano “quattro”. Il quarto chi era? Era Alberto Bragaglia, pittore: uomo scontroso, restìo, che non faceva mostre, per cui era rimasto pressoché sconosciuto. Siccome il regista Leonardo Bragaglia, figlio di Alberto e nipote di Anton Giulio, aveva letto il copione di una mia commedia intitolata Davanti al ponte di ferro e ne aveva curato egregiamente la regìa per la radio italiana, facemmo amicizia, e mi fece vedere i quadri di Alberto. Per cui, credendo Leonardo fermamente nel valore del proprio padre, ed io essendo più volte sollecitato, sono, non il solo, ma uno di quelli che più han messo in rilievo Alberto Bragaglia. In tutte le prime mostre di Alberto Bragaglia c’è qualche nota mia, oppure in altri testi  vengono ripresi miei giudizi. Si riconosce insomma che sono uno degli scopritori - o ri-scopritori - di Alberto Bragaglia, come lo sono stato anche del ciociaro Antonio Valente. Non che l’abbia scoperto io, perché Antonio Valente era un architetto affermato, pittore e disegnatore importante degli anni Venti, ma era stato dimenticato, forse anche lui per gli stessi motivi di Anton Giulio Bragaglia: cioè, avendo essi operato durante il ventennio fascista, la cultura del dopoguerra riteneva inopportuno di occuparsene. Invece - è ovvio - io ritenevo che l’arte avesse un valore indipendente dai regimi politici, e sono uno di quelli che hanno recuperato Antonio Valente, anche in mostre, ed ho scritto per cataloghi collettivi a cui fortunatamente hanno collaborato molti uomini di cultura.

9. Altre mostre

Ho dedicato la mia attenzione anche ad altri pittori, scultori e scultrici. Ho fatto cataloghi per Lina Passalacqua, la cui opera mi interessava particolarmente perché si ispirava molto a Balla, ai futuristi e quindi entrava un po' nei miei interessi. Aveva con me una intesa particolare perché era studiosa dei futuristi. Un’altra artista che ho appoggiato è stata Elvi Ratti, che ho conosciuto attraverso Emanuele Marano, un amico che possedeva una piccola galleria in Via Ripetta e organizzava mostre e libri collettivi. Marano Svolgeva un’attività culturale molto interessante: faceva mostre ispirate alle favole, mostre sui gioielli e a sua richiesta ho scritto la prefazione al catalogo di una bella esposizione intitolata Il disegno prezioso poi ripreso a Vicenza. Si trattava di gioielli disegnati dai fratelli Mirko e Afro Basaldella. Marano, il proprietario della galleria, che ora vive in un paese dell’Emilia, a Pennabilli, dove abita anche lo sceneggiatore Tonino Guerra, una volta organizzò una mostra cui i pittori dovevano partecipare illustrando delle favole. Una favola mia a cui tengo molto, intitolata La curiosità del vento, fu illustrata in questa occasione da Elvi Ratti, che compose un quadro intitolato, appunto, La curiosità del vento.
Poi sono stato implicato in altre mostre. A Milano la galleria “Fonte d'abisso” ha organizzato una mostra di opere varie futuriste ed io ne ho scritto il catalogo intitolato Archivi futuristi. A Milano, e in città svizzere, ho anche presentato una mostra dell’amico scultore e incisore, di origine armena, Henrig Bedrossian.
Ma ritorniamo ai vecchi amici, e al Salimbeni, così poco riconosciuto durante tutta la sua vita, specialmente a causa delle innumerevoli disgrazie che gli sono capitate: la salute, l’alluvione che gli ha distrutto lo studio a Firenze, la opposizione degli avversari, sempre a Firenze, per sistemare in una degna sede la statua dell’Elettrice Palatina; la cronica mancanza di denaro che gli ha impedito di fondere numerose opere. Io facevo di tutto perché questo nome riemergesse, giacché lo consideravo, e lo considero, un grande artista; scrissi un saggio sulla rivista “Terzo occhio” e ne divulgai le fotocopie presso le autorità, il Sindaco di Firenze, i Ministri. Tuttavia queste autorità, nell’alternarsi delle vicende politiche, cambiavano continuamente. Piero Bargellini mi avrebbe aiutato, ma poi ha lasciato l’ufficio di Sindaco. Insomma non si riusciva a concludere niente. Nell’estate 1994 ho organizzato, e presentato con un mio scritto in catalogo, una mostra di disegni di Salimbeni nel Museo Pianeta Azzurro di Fregene. Finalmente il Ministro per i Beni Culturali Paolucci, che veniva dalla Sovrintendenza alle Belle Arti di Firenze, e la buona amica Carla Guiducci Bonanni, Direttrice della Biblioteca Nazionale di Firenze, Sottosegretario nello stesso Ministero,  hanno fatto in modo che la statua dell’Elettrice Palatina, che stava in un sottoscala, finalmente riemergesse. Ora - l’ho già detto - splende nel giardinetto contiguo alle Cappelle Medicee.
Altra mostra di “recupero” è stata realizzata da me con l’amico Miklos Vargas (il quale aveva già trattato precedentemente dei quadri astratti dell’artista) per il “vetrinista” Alfieri, un marchigiano vissuto a Milano. Questa mostra è stata fatta all’Aquila e nel catalogo vi sono scritti di Miklos Vargas e miei. Con Vargas collaboriamo con la migliore intesa nella rivista bolognese “Terzo occhio”, di cui siamo, con Giorgio Di Genova, Redattori; Direttore è Patrizia Bonfiglioli.

10. Virgilio Marchi

Corradi: Nel 1995 hanno avuto luogo altre mostre cui, come critico presentatore di artisti ed anche come collezionista, hai partecipato da protagonista, e sono ben tre: una a Locarno dedicata all’architetto scenografo Virgilio Marchi, una dedicata a Ginna nell’ambito della grande esposizione “Occultismo e Avanguardia” organizzata alla Galleria Nazionale di Francoforte, e una a Macerata dedicata a Ivo Pannaggi.
Verdone: Virgilio Marchi - come ho ricordato - era stato insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia, avevo avuto con lui grande familiarità e avevo già scritto su di lui molte volte, anche sulla sua collaborazione, per le scene, con Pirandello; come pure sulla sua presenza nel GUF di Siena quando aveva creato la scenografia, alla fine degli anni Trenta, di Il Gorgolèo ovvero Il Governatore delle isole natanti di Girolamo Gigli e dell’Assetta del “Rozzo” (cioè appartenente alla Congrega dei Rozzi, di Siena) Francesco Mariani: anzi, prima dell’Assetta e poi di Il Gorgolèo, perché la stessa scenografia fu utilizzata sia per l’uno che per l’altro spettacolo. Avevo, quindi, già trattato di lui con ammirazione negli anni Trenta: quando si è trattato di fare una mostra delle sue scenografie cinematografiche, la galleria “Fonte d’abisso”, che è venuta in possesso della maggior parte dei bozzetti dei suoi numerosi film, mi ha chiesto nel 1993 di stendere la presentazione. Fu preparato con ogni dettaglio un ragguardevole catalogo che doveva essere stampato  per una mostra a Milano. Ma poi tutta l’iniziativa, il mio scritto, le scenografie e anche altre opere, tutto è stato ceduto al Festival di Locarno, e il catalogo è stato pubblicato a cura del critico Alberto Farassino. Il saggio introduttivo, e soprattutto il lavoro preparatorio, è stato quello che avevo fatto io, due o tre anni prima. La mostra si è inaugurata con successo nell’estate 1995 al Festival di Locarno dove siamo andati insieme.
11. Occultismo e avanguardia

A Francoforte si è tenuta una originale mostra di importanza mondiale intitolata Occultismo e avanguardia. Quando si è cominciato a  organizzarla si è formato un Comitato Scientifico composto da Veit Loers, Direttore della Galleria di Kassel, celebre per le sue mostre sull’arte dell’avanguardia, dal Direttore della Galleria Nazionale di Francoforte sul Meno e da altri critici che venivano dalla Lituania, dalla Francia e da altri Paesi. Dall’Italia siamo stati chiamati io stesso e Sergio Paganella che ha fornito molte opere futuriste, quale Direttore della Galleria d’Arte “Fonte d’Abisso” di Milano-Modena, quella stessa con cui avevamo preorganizzato la mostra di Virgilio Marchi. Nella mostra Occultismo e avanguardiacompaiono tre miei saggi: uno su Arnaldo Ginna e Rosa Rosà, uno sui Bragaglia e la fotodinamica, uno su Leopold Survage, uniti agli interventi di altri collaboratori. Una mostra considerata internazionalmente di primario interesse, con un catalogo fondamentale. E’ da notare che si parla da allora (1995), in maniera più approfondita, di occultismo e avanguardia; però, se si riprende il mio libro Cinema e letteratura del futurismo, del 1967, io parlo di occultismo e avanguardia proprio a proposito di Arnaldo Ginna; per cui credo di essere tra gli iniziatori di questo studio particolare su cui rari critici italiani, prima, si erano particolarmente soffermati. Avevo trovato un legame fra due fenomeni dell’inizio secolo: l’occultismo e l’avanguardia.
Corradi: Agli inizi del secolo appena trascorso c’era grande rivolgimento culturale e tante cose che prima non erano state prese in considerazione erano venute in primo piano, e non a caso, in un momento  in cui si infoltivano gli studi spiritualistici, sull’oriente, e sulla psicoanalisi.
Verdone: L’occultismo aveva interessato soprattutto certi pittori futuristi come Ginna e Balla, e nel mio libro Cinema e letteratura del futurismo avevo sottolineato l’aspetto occultista di una frangia del Futurismo; perché non tutti i futuristi nascono dall’occultismo ma certamente i due fratelli Ginanni Corradini, cioè Arnaldo Ginna e Bruno Corra, erano i primi rappresentanti di un’arte occultista all’interno del Futurismo: Ginna con le sue pitture e Corra con i suoi libri. Sam Dunn è morto è un romanzo occultista, che ho ripubblicato nel 1970 circa, presso l’editore Einaudi, con una nota critica che richiama agli aspetti supersensibilisti, occultisti, magici, fantastici che avevano avuto le opere di alcuni futuristi italiani. Credo di avere accentuato io questi studi su occultismo e Futurismo; nessun altro, salvo Massimo Scaligero, li aveva messi in rilievo prima di me, e mi sembra giusto rivendicare questo fatto. Attualmente ha ripreso acutamente questi studi Simona Cigliana.
Corradi: Nella mostra di Francoforte tu sei stato uno di coloro che hanno contribuito con dei saggi all’imponente catalogo pubblicato in lingua tedesca, e hai fatto parte anche del Comitato Scientifico che ha preorganizzato la mostra. Ricordo che durante il 1994 ti sei recato a Francoforte per le riunioni del Comitato. Ma hai fatto anche qualcosa di più, perché hai prestato alla Mostra numerose opere di Ginna della tua collezione.
Verdone: Il catalogo ne registra dieci o quindici: si tratta di disegni e acquerelli. C’è perfino uno studio a pastelli colorati intitolato Musica della danza che costituisce il  primo studio per il film astratto che Ginna stava realizzando nel 1912. In seguito Ginna ha dipinto anche un quadro con lo stesso titolo, Musica della danza. Nel catalogo non figurano, tra le illustrazioni, tutte e due le opere, sia il dipinto che il mio pastello (il mio pastello è precedente). Non le hanno messe forse perché il pastello è stato già reso noto in una mostra di Los Angeles intitolata  Della spiritualità nell’arte. Quindi  hanno preferito pubblicare il dipinto.  Però il pastello, a mio avviso, è più fine e più elegante. Si vede che il quadro è il risultato - meno spontaneo - di un progetto precedente.
Corradi: In occasione della stesura di questi saggi per il catalogo, tu hai visto in una mostra a Roma un quadro di Ginna e non hai potuto resistere alla tentazione di comprarlo.
Verdone: Di comprarlo, sì, ma fortunatamente per una cifra non eccessiva. Il proprietario ancora forse non aveva valutato il nuovo interesse che potevano suscitare Ginna e l’arte occultista. Il quadro rappresenta una specie di mostro-uccello bicaudato e probabilmente era intitolato La gallina futurista.
 
12. Ivo Pannaggi

Corradi: Vorrei arrivare alla mostra Pannaggi che si è tenuta a Macerata e nella quale sono state esposte molte decine di opere della tua collezione. In parte, lo stesso Pannaggi te le aveva donate, con la certezza che le avresti utilizzate e valorizzate.
Verdone: Devo dire che io già da qualche anno avevo progettato una mostra delle opere di Pannaggi di mia proprietà, e avevo in animo di tenerla presso la Fondazione Primo Conti di Firenze, del cui Comitato Scientifico faccio parte da quando è nata la Fondazione. Nel 1995 è entrato a far parte del Comitato Enrico Crispolti il quale mi ha detto: «Rifletti, se fai questa mostra a Fiesole, avrà, sì, un certo interesse, ma non avrà la risonanza che può avere una grande mostra che io vorrei invece organizzare a Macerata, d’accordo con la Banca Carima, la Cassa di Risparmio delle Marche». Ha aggiunto: «Tu potresti fornire le tue opere a questa mostra e così la faremmo insieme a Macerata». Da principio ero un po' restìo perché ci tenevo a valorizzare io stesso questi lavori. Poi, riflettendo, ho convenuto che nella mostra di Macerata forse sarebbero stati messi meglio in evidenza, non per quel che riguarda i visitatori e il pubblico, perché purtroppo a Macerata non si poteva contare su una intensa frequentazione, ma certamente a mezzo del bel catalogo finanziato da una banca, mentre invece la Fondazione Primo Conti avrebbe realizzato l’impresa in maniera inevitabilmente modesta, in quanto attualmente non dispone di molti mezzi. Quindi, per quanto perplesso, ho convenuto che era giusto collaborare per la mostra di Macerata.
Ho mandato moltissime opere e desidero raccontare del mio rapporto con Pannaggi, affinché si capisca meglio perché sono possessore di tanti suoi lavori e perché considero mio dovere valorizzarli.
Quando, verso il 1965, ho scritto un mio saggio su Anton Giulio Bragaglia, sulla rivista “Bianco e nero”, ho  pubblicato anche dei fotomontaggi che erano opera di Pannaggi.
Pannaggi ricevette dall’“Eco della stampa”, a Oslo, dove viveva da molti anni, un ritaglio e scrisse impersonalmente alla direzione della rivista ringraziando che si fossero occupati dei suoi lavori. Fra l’altro, nel saggio, era detto (per una informazione inesatta, data forse dalla figlia adottiva di Anton Giulio Bragaglia) che il Ballo meccanico rappresentato al Teatro degli Indipendenti di Roma nel 1922 era stato allestito con la regìa, la messa in scena, di Anton Giulio Bragaglia. Allora Pannaggi ci tenne a precisare che non c’era stata regìa, non c’era stata messa in scena, che c’era stato solamente un “Ballo” che aveva ideato lui stesso insieme al suo amico pittore Vinicio Paladini. Pertanto non si poteva parlare di regìa o di messa in scena da parte di Anton Giulio Bragaglia.
Mi affrettai a scrivergli e a dirgli che di questa sua informazione avrei tenuto debito conto nelle mie note successive, ma che comunque mi sarebbe piaciuto, siccome ristampavo il saggio (sempre con le edizioni di “Bianco e Nero”, ma in un volume autonomo rispetto alla rivista), mettere in copertina una caricatura, di cui possedevo la riproduzione, di Anton Giulio Bragaglia, fatta dallo stesso Pannaggi. L’artista maceratese mi rispose felicissimo di darmi l’autorizzazione a pubblicare in copertina questo suo disegno, anzi me lo rifece; e ci mise anche le misure perché essendo un architetto, oltre che pittore, era molto preciso in tutto quello che faceva, nelle indicazioni che dava ai fotografi, ecc. Da questo momento fra noi nacque un’amicizia tanto cordiale da far sì che per lungo tempo la nostra corrispondenza fosse quasi settimanale: io conservo almeno un centinaio di lettere di Ivo Pannaggi in cui da principio ci trattiamo con quella deferenza, con quel “Lei” che si adopera nelle prime corrispondenze, ma in seguito siamo passati a darci del tu. Scherzavamo, ci scambiavamo dei motti di spirito, addirittura dei versetti alla maniera dell’Index virorum rerumque prohibitorum di Bragaglia.
Pannaggi si divertiva molto con la corrispondenza con me e mi diceva chiaramente che lo riportava ai tempi degli anni Venti, quando frequentava Bragaglia. Nel corso di questa corrispondenza si parlava delle sue caricature, dei suoi quadri, ecc. Intanto era stata fatta a Roma una mostra di alcune sue opere, poche, ed a prezzo ragionevole. Io ne comprai due o tre: erano olii, “robot”, Condannati alle macchine. Allorché la galleria lo informò Pannaggi fu molto soddisfatto che i quadri fossero finiti nelle mie mani e mi scrisse in una lettera: «Sono contento come una mamma che ha ben piazzato la propria figlia, e le ha procurato un buon matrimonio: non un matrimonio di danaro, perché io ci ho guadagnato ben poco a vendere quei quadri, però li ho piazzati bene». Dopo questo, parlando di caricature, parlando di opere sue, ecc., ha cominciato a inondarmi di regali, forse anche perché contava di lasciare presto la Norvegia per ritornare in Italia e allora si sbarazzava di vecchie carte e documenti: mi mandava per posta pacchi su pacchi, tutti ben imballati, tanto che una volta gli scrissi «Viva Pannaggi, re degli imballaggi». Mi mandò in particolare una trentina di caricature, tutte a me dedicate, caricature originali e che avevano anche valore di documento storico: una per esempio era del regista Ernst Lubitsch - da me diletto - oppure erano di artisti tedeschi, attori, musicisti e via dicendo. Non tutti famosissimi, perché le caricature più importanti, quelle dei personaggi più celebri, erano già sparse per il mondo: i maestri del Bauhaus, Marinetti, Luciano Folgore, Toscanini. A me spesso mandava anche fotografie di riproduzioni: Buster Keaton, Kandinsky, scrittori italiani.
Poi mi ha anche mandato  dei disegni di un suo progetto di sedia monopezzo, che aveva ideato negli anni Trenta e che a suo tempo aveva offerto a varie ditte, le quali avevano accolto l’idea con molto interesse; ma siccome sarebbe stato necessario realizzarla in vetro o in legno, o in altri materiali, il costo era eccessivo e le ditte esitavano a metterla in produzione. In effetti il progetto non è stato realizzato e Pannaggi è rimasto deluso, perché l’idea gli sembrava giusta: così giusta che oggi in tutto il mondo si vedono innumerevoli sedie monopezzo fatte di plastica. Però le vediamo oggi, mentre Pannaggi le aveva ideate trenta o quaranta anni fà. Mi mandò anche tutte le fotografie e i disegni di queste opere (Cfr Mario Verdone, La sedia monopezzo, in “Immaginifico”, n. 2, 1996, Udine). In conclusione: le caricature, i dipinti, le fotografie, i disegni, tutto quello che avevo, più di sessanta pezzi, li ho mandati alla mostra di Macerata. E questa è l’ultima delle mostre cui ho partecipato nel 1995.
Corradi: Hai partecipato come collezionista, che ha mandato una parte cospicua delle opere esposte, e hai partecipato come studioso, perché nel catalogo, che figura a cura di Crispolti in quanto la parte organizzativa della mostra l’ha curata lui stesso, ci compaiono alcuni tuoi saggi. Su quale argomento erano centrati?
Verdone: I miei saggi sono due. Uno intitolato Pannaggi a Oslo, per il quale mi avvalgo soprattutto delle lettere, della corrispondenza, ne faccio un montaggio, le discuto, le commento, faccio parlare le lettere. Nel secondo invece, Pannaggi e il teatro, parlo delle sue attività teatrali, che non sono secondarie perché non aveva fatto soltanto costumi e scenografie per Marinetti, per Ruggero Vasari, per gli spettacoli di Bragaglia al Teatro degli Indipendenti, ma aveva ideato anche, cosa che io non trascuro mai di ricordare, la Lanterna magica, cioè quel progetto di teatro misto di fotografia, cinema, teatro, danza, musica, che è una sorta di “teatro totale”, da lui ideato nel 1925, e che è stato poi attuato nel 1958 da due fratelli cecoslovacchi, i Radok, (e quindi da Josef Svoboda) presentandolo prima all’esposizione universale di Bruxelles del 1958 (alla quale io sono intervenuto e quindi sono stato spettatore della realizzazione) mentre successivamente è stato trasportato a Praga dove oggi è visibile in un teatro che si chiama Laterna magica (senza la enne). Il bozzetto della Lanterna magica di Pannaggi è in mio possesso.
Una volta Pannaggi mi chiese in prestito i quadri dei Condannati alle macchine, che voleva esporre in una Mostra, se ben ricordo, in Abruzzo. Aderii alla richiesta e consegnai le opere a persona di sua fiducia, che venne in macchina a ritirarle. Pregai che la restituzione fosse fatta con lo stesso mezzo. Pannaggi, chiusa la Mostra, promise una spedizione per raccomandata. Era un periodo di scioperi postali. Si leggeva sui giornali che mucchi di corrispondenze e pacchi (come comprovavano le fotografie) giacevano sotto le pensiline delle stazioni. Si diceva che, per necessità, molta corrispondenza veniva mandata al macero. La mia apprensione era al massimo. Passarono giorni e settimane. Pannaggi cercava, per telefono, di tranquillizzarmi. Finalmente il pacco arrivò: era una semplice scatola di cartone, tutta sconquassata, non “raccomandata”, e spedita semplicemente come.. “stampe”!
Da una parte tirai finalmente un sospiro di sollievo e contemporaneamente provai un brivido di orrore pensando che i miei preziosi quadri avevano rischiato la distruzione!
Corradi: Bisogna ancora elencare, fra gli artisti per cui hai scritto cataloghi, Henrig Bedrossian: ne hai parlato nell’intervista dedicata alla tua amicizia personale con vari artisti.
Verdone: Mi sono occupato delle mostre dell’armeno Henrig Bedrossian, ho scritto presentazioni di cataloghi per una mostra a Roma, e per una svoltasi a Milano, poi per due mostre tenutesi in Svizzera, una a Ginevra e una, se ben ricordo, a Losanna.

13. Critico d’arte?

Corradi: Mario, nel parlare di tutti i cataloghi di presentazione di mostre di artisti, tu forse per troppa modestia mi sei apparso riduttivo. Mi spiego: da quello che hai detto, sembra che il tuo contributo in materia di storia dell’arte (e mi riferisco principalmente all’arte moderna e contemporanea), si sia limitato a fare la presentazione di artisti, soprattutto moderni e principalmente futuristi, che tu a mano a mano scoprivi, mentre ne valorizzavi anche la produzione letteraria, poetica o di altro genere, nel tuo ruolo di critico “totale” che si occupava di artisti “totali”. Anche secondo il metodo di Marinetti, valorizzavi il loro contributo in ogni campo della espressione artistica. Ti prestavi a fare per loro un catalogo di presentazione, ma a me invece non sembra che il tuo ruolo e il tuo prestigio nel campo della conoscenza dell’arte contemporanea sia limitato a questo, che pure è un contributo di grande valore e importanza scientifica. Trovandomi con te a visitare mostre di artisti, o musei, ma soprattutto capitando in casa di collezionisti grandi o piccoli, ti ho visto infinite volte guardare di lontano i quadri di innumerevoli artisti e sorprendere sia il padrone di casa sia i tuoi colleghi specialisti indicando, di lontano, dopo una occhiata di un secondo, gli autori di tutti, dico tutti, i quadri, individuando anche quelli di artisti meno conosciuti, oppure i quadri meno conosciuti di artisti più noti. Ti ho visto infinite volte sorprendere  padroni di casa, proprietari di collezioni, critici, artisti, i quali non dissimulavano la loro, diciamo così, ammirazione. Vorrei pertanto che tu mi raccontassi come e sotto quale stimolo ti sei fatto questa che è una conoscenza sicuramente assai vasta e profonda nel campo dell’arte contemporanea.
Verdone: Ciò dovrebbe rientrare tra le competenze dei discreti o buoni conoscitori d’arte e dei critici. Non concepisco un critico che non sappiariconoscere i nuovi valori o addirittura scoprirli. Diceva Apollinaire, e siamo prima della guerra mondiale del 1914, che il critico Ricciotto Canudo aveva “la capacità di vedere per primo”. Ecco, io confesso che ho sempre aspirato a raggiungere, con i mezzi a me propri, e che dapprima saranno stati anche abbastanza limitati, gli stessi risultati. Provo fastidio per i “critici”, fra virgolette, che “rimasticano” ciò che han detto gli altri, che sono incapaci di fare una vera scoperta e che magari davanti a un nuovo caso rimangono interdetti, muti, insensibili. Eppure è questa la situazione di molta critica d’oggi, ma non soltanto della critica d’arte; quasi in ogni campo, e forse ancor più nel campo dello spettacolo, che in questo momento attrae moltissimi giovani, giornalisti e scrittori. Vai, ad esempio, alla Mostra di Venezia e trovi duemila o tremila così detti “critici”; vai al Festival di Locarno e ne trovi milletrecento. Però è raro, e mi riferisco proprio a quest’ultimo caso, che è avvenuto nell’agosto 1995 - e c’eri anche tu - è raro che qualcuno si fosse dedicato con impegno a valutare, ad esempio, tutta l’opera di Abbas Kiarostami che per l’appunto veniva allora, per la prima volta, presentata in retrospettiva (ma ora tutti ne hanno capito la statura), o che - sempre a Locarno e negli stessi giorni - abbia prestato la legittima, dovuta, attenzione alla mostra dell’architetto scenografo Virgilio Marchi, collocata in un museo, con centinaia di disegni e scenografie, sia dell’epoca futurista, sia del periodo della sua collaborazione con Pirandello, sia relative alla sua collaborazione al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia; e soprattutto attinenti alla sua collaborazione con registi cinematografici italiani, in primo luogo Blasetti e Rossellini, e  con Trenker, che diresse il famoso film I condottieri.
Corradi: Ripeto, io sono un po' stupita, tu dici: «Ecco, quel quadro è del tale, quell’altro è del tal’altro». Ma lo dici da lontano, a colpo d’occhio, di tutte (o quasi) le decine di quadri che vedi appese alle pareti di una sala. E’ una mia specifica curiosità di pedagogista. Vorrei che tu mi raccontassi sotto quale stimolo, perché, e come, da quali fonti, in che modo ti sei fatta questa cultura. Non certo studiando un trattato di storia dell’arte.
Verdone: E' vero. I trattati di storia dell’arte, desiderando avere dei panorami generali, quelli naturalmente li ho studiati, o consultati, anche dopo; ma, come credo di averti raccontato altre volte, fin da ragazzo ho frequentato i musei di Siena, musei che sono di una ricchezza incomparabile, musei dove si possono contare alcune centinaia di artisti - e sottolineo, locali - di vera grandezza, universalmente riconosciuta. Ora se io faccio il raffronto, come spesso lo faccio, tra una regione come la Toscana e Paesi di analoga estensione, come la Svizzera per esempio, io non credo che in Svizzera di artisti di statura mondiale se ne possano contare più di una diecina. Invece a Siena nel Trecento e nel Quattrocento ce ne erano a centinaia e naturalmente ciò avveniva anche a Firenze. Insomma si può dire che Siena e Firenze, in determinati secoli, hanno rappresentato l’arte italiana, e, direi, anche l’arte del mondo. Andando spessissimo nella Pinacoteca Comunale, visitando i musei dell’Opera del Duomo, i musei minori, anche quelli delle contrade, io avevo la possibilità di vedere, quasi ogni giorno, opere d’arte, e già da allora scattava quell’attenzione che mi faceva distinguere un’opera da un’altra, un autore da un altro (devo dire con una certa soddisfazione che anche mio figlio Luca ha lo stesso “occhio”). Direi dunque che ho cominciato sin dall’infanzia e dall’adolescenza ad essere vicino alle opere d’arte, pur  senza avere alcuna intenzione di fare il critico d’arte, senza pensare mai a diventare docente di storia dell’arte. Era una specie di hobby, però questohobby trovava buon nutrimento nell’ambiente che mi circondava. E naturalmente sfruttavo queste conoscenze scrivendone.
All’Accademia Petrarca di Arezzo, dove ho tenuto una conferenza sul “neorealismo”, ho stupito il pubblico raccontando che già a diciotto anni avevo fatto uno studio sui rapporti di amicizia tra Simone Martini e Francesco Petrarca. Già da quando ero giovanissimo io avevo capito che bisognava guardare a tante cose insieme, avere quella che alcuni chiamano “intelligenza sociale” e perciò anche le miniature che Martini aveva fatto per Petrarca secondo me potevano essere un episodio da notare, che ha lasciato qualche traccia anche nella continuazione dei miei studi. Infatti io non mi sono mai diretto esclusivamente verso il pittore, verso l’illustratore, verso l’artista o esclusivamente verso il poeta, verso lo scrittore. No, quando c’era un sodalizio artistico fra appartenenti a espressioni diverse io mi trovavo ancora di più a mio agio.
Corradi: Cioè tu sei sempre stato appassionato dell’individuare, studiare e godere per il convergere di varie forme di arte. Magari poste in opera da artisti diversi, o anche da un solo artista: il convergere di varie manifestazioni artistiche o in un solo soggetto, o in due soggetti o prossimi o complementari.
Verdone: I primi frutti pratici di questa frequentazione delle opere d’arte sono in quei miei primi articolini, di scarso valore, che pubblicavo nelle cronache di Siena del “Telegrafo”, della “Nazione”, nella cronaca toscana del “Giornale d’Italia”. Erano tanti articolini che però erano dedicati a grandi personaggi che mi interessavano particolarmente perché - in un certo senso - ci vivevo a contatto, erano come dei vicini di casa; perché andavo a Piazza San Giovanni e vedevo da un lato il busto in ricordo di Francesco di Giorgio Martini, un immenso artista, quasi leonardesco; oppure andavo nella Chiesa della mia Contrada, San Sebastiano, e si asseriva che era stata costruita su disegno di Baldassarre Peruzzi; guardavo le Madonne che erano conservate nella sagrestia e nella Chiesa e che erano di Francesco di Giorgio Martini, e di Benvenuto di Giovanni. Quindi mi trovavo sempre vicino a capolavori, e questi capolavori poi mi inducevano spesso a parlarne. Addirittura, quando poi fu rubata la Madonna della Contrada della Selva, una Madonna celebre, io addirittura ci scrissi una commedia: Il furto della Madonna.
Insomma vivevo a contatto con eccelse opere d’arte. E diventavano il mio mondo.
14. Una innata curiosità intellettuale

Corradi: Tu mi hai anche raccontato che ti informavi del centenario della nascita o del centenario della morte di questo o quel grande artista, ti andavi preventivamente a documentare e quando mancava qualche settimana al cadere dell’evento offrivi l’articoletto che talvolta veniva pubblicato senza compenso, e tal’altra ti consentiva di guadagnare il cosiddetto argent de poche.
Verdone: Questo avveniva nei primi anni di gioventù, quando vivevo a Siena ed ho avuto i primi contatti con le pinacoteche, con i musei. Fino alla seconda guerra mondiale (1939-1945) o per ragioni economiche personali o per la difficoltà di ottenere visti, passaporti ecc., ben pochi di noi viaggiavano fuori Italia, e si sapeva ben poco di quello che succedeva all’estero. Ma subito dopo la fine della guerra (1945), apertesi le frontiere, io cominciai a viaggiare. Ebbi la fortuna, attraverso il tipo di lavoro che avevo scelto, di potermi recare spesso a Parigi, perché mi ero inserito nell’UNESCO e in altre organizzazioni, ero chiamato dagli Istituti Italiani di Cultura all’estero, andavo ai Festival, venivo inviato a scegliere i film per la Mostra di Venezia nei Paesi più lontani e devo dire che ogni mio viaggio era una occasione di studio di opere d’arte. Trovavo sempre le ore per dedicarmici. Dato che i film me li mostravano nelle sale di proiezione delle case cinematografiche o degli enti di Stato o degli Istituti di Cultura, nelle ore libere io non mancavo di fare le mie visite ai musei, alle gallerie locali, e anche agli studi degli artisti. Ogni viaggio era una nuova conoscenza che acquisivo e questo si può del resto anche desumere da quel mio libro intitolato Diario parafuturista nel quale ogni capitolo è dedicato a un personaggio e a una città diversa. In tale libro ho trattato dei miei incontri con Lajos Kassak, che è considerato il capo dell’avanguardia pittorica e poetica ungherese, ho parlato di John Heartfield, che è uno dei pionieri, uno dei maestri dell’arte del fotomontaggio, ho parlato di futuristi scoperti in musei argentini, portoghesi e spagnoli: Pettoruti, che visitai nel suo studio a Parigi, Seji Togo, il futurista giapponese di cui contemplai le opere in un museo di Tokyo. Quando parlo di “scoperta” mi riferisco a ciò che poteva essere noto ad altri, ma che al tempo diventava tale soprattutto per me.
Corradi: Ma allora se si volesse esporre il metodo autodidattico che hai seguito per farti questa cultura si dovrebbero porre in evidenza alcuni elementi essenziali. Intanto non è stato intenzionale, ma è stato dettato sempre e soltanto dalla tua pura curiosità intellettuale. D’accordo che inizialmente avevi come vicini di casa i grandi artisti di Siena e le loro opere, anche a breve distanza da casa tua, ed è certo che quando si accostano veri maestri si è molto influenzati da loro. Però io direi che hai cominciato avvicinandoti ai grandissimi maestri senza conoscere quasi nulla di loro, poi ti sei, su alcuni, uno per volta, documentato in maniera approfondita per fare quei tali articoletti con cui ti guadagnavi l’argent de poche. Dopo di che, quando hai potuto viaggiare, cioè eri tu che andavi a visitare musei di città estere o ad incontrare gli artisti nei loro studi, sia in Italia sia all’estero, mi sembra che il tuo maestro, cioè quello che ti ha condotto per mano, è stata quasi esclusivamente la tua curiosità di apprendere, curiosità di capire, curiosità di vedere. O sbaglio?
Verdone: La mia prima educazione all’arte mi è venuta indubbiamente dalla città dove sono cresciuto, non da insegnanti: è a Siena-città, nel suo insieme, che io debbo la mia educazione estetica. Semplicemente guardando le opere ho sviluppato l’abitudine a distinguere, a riconoscere, a trovare le differenze e via dicendo. Questa è stata la mia scuola. Una scuola che è arrivata a me senza neppure l’aiuto di un docente, perché quando io facevo il Liceo, di storia dell’arte se ne faceva un’ora alla settimana e il bravo professore che ci insegnava si limitava ad additarci sul libro di testo qualche riproduzione di grandi quali Michelangelo o Raffaello, ma niente di più. Per questo non posso dire di aver avuto un maestro di storia dell’arte. Imparavo da me, guardando le cose. Indubbiamente se avessi avuto un maestro di grande dottrina mi avrebbe detto qualcosa di più, mi avrebbe consigliato, mi avrebbe guidato. Però la realtà è stata che io cercavo da me. Questo è fuor di dubbio. Ecco perché è giusto dire che  io - almeno in questo campo - sono autodidatta, documentato però su fonti serissime. E questo mio iter formativo è stato un po' diverso da quello del mio amico Piero Sadun con il quale discutevamo, vedevamo insieme le opere, ecc. Sadun aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti, poi a Firenze aveva studiato con Primo Conti, aveva avvicinato maestri fiorentini, era legato da amicizia con un grande critico come Cesare Brandi. Indubbiamente quello che Brandi ha insegnato a Sadun ha avuto il suo peso e io non ho avuto nella stessa misura questo privilegio, anche se magari Cesare Brandi era mio amico, anche se andavamo a cena tutti insieme, a spettacoli insieme, però non era quello il momento istituzionale in cui il maestro fa lezione e il  discepolo apprende. Tutto si coglieva attraverso le conversazioni o magari si andava insieme alle mostre, le prime mostre che si vedevano a Roma dopo il 1945: e fu allora che mi interessai vieppiù alle tre “S”: cioè Scialoja, Sadun, Stradone, detti anche, per voluto paradosso, i tre pittori “fuori strada”. A loro si aggiunse, in una mostra a Firenze, anche Salimbeni.
Ma un arricchimento di queste conoscenze lo ebbi proprio, come ho detto più volte, per i viaggi che facevo: direi che in ogni viaggio io facevo - per me personalmente - qualche scoperta; non intendo le scoperte di cose nuove; no, io parlo delle mie scoperte personali, di cose che io ancora non sapevo, e di scoperte ne ho fatte infinite. Trovandomi a Mosca, nonostante i divieti e gli ostruzionismi, sono riuscito ad andare nella casa di Majakovskij e ho visto come era la sua casa, i libri che possedeva, anche in altre lingue, le opere d’arte sue e dei suoi amici. Ecco, questo già costituiva un mio arricchimento, incominciavo a conoscere qualcosa di più dell’arte russa dell’epoca sovietica. Me ne andavo a Parigi, dove mi recavo frequentemente, e lì eccomi nello studio di Léopold Survage a discutere con lui dei suoi quadri e del “ritmo colorato”, quadri che io per primo ho rivalorizzato. Sono andato a casa di Emilio Pettoruti, pittore argentino che aveva uno studio a Parigi, e con lui abbiamo discusso dei suoi rapporti con i futuristi, della sua amicizia con Soffici; addirittura mi mostrò una collezione della rivista fiorentina “Lacerba” e mi disse: «Vedi, è rilegata con le carte disegnate da Ardengo Soffici per una ditta di carte stampate». Erano tutte nozioni, anche spicciole, che, raggranellate qua e là, arricchivano le mie conoscenze preesistenti e vi si integravano. Quando poi sono andato anche in Paesi come Cuba, sono riuscito a pescare l’unico pittore futurista italo-cubano, ormai cieco, che viveva a La Habana (e che ora è morto) e che si chiamava Mauricio Pogolotti. E nei viaggi avvenivano le “scoperte” dei triestini-sloveni Cernigoj e Bambic, del ricordato Teschner e di altri scomparsi o non contemporanei: il cèco Lada, lo svizzero (ma del secolo XVIII) Du Cros… A Beaune (Francia) mi sono interessato a Marey, un anticipatore della fotodinamica, visitandone accuratamenete il Museo.
Corradi: Di Pogolotti mi ricordo, perché dopo la sua morte tu hai scritto un bell’articolo, e Isabella Madìa, in occasione di un viaggio a Cuba, è andata a La Habana, ha cercato la sorella, che vive molto modestamente, e le ha portato il tuo  scritto, che l’ha commossa.
Verdone: E così nei viaggi in Spagna. In Portogallo ho scoperto -per me - Almada Negreiros, che è il maggiore pittore futurista portoghese; non l’ho conosciuto personalmente perché era ammalato; però fortunatamente in un Festival organizzato, mi pare, dal CIDALC, e dove si davano film sull’arte, vidi una sua lunga intervista in un documentario a lui dedicato, per cui seppi molto della sua vita, della sua opera, dei suoi contatti con i futuristi. Poi, tornato a Roma, gli scrissi subito per allacciare una corrispondenza, per avere altre notizie, e mi inviò la sua commedia Pierrot e Arlequin; ma purtroppo era ormai in condizioni di salute pessime, presto morì, e quindi non riuscii ad avere un contatto diretto, anche se gli avevo già dedicato un articolo. Ricordo che sul “Corriere della sera” parlai di lui dopo la sua morte.
Allorché scrissi di Almada, credo che fosse assolutamente sconosciuto a tutti i critici d’arte italiani questo personaggio che invece era il fondatore del movimento futurista in Portogallo. Fra le conoscenze che mi hanno arricchito c’è  stato - come ho già detto - quella di Arnaldo Ginna, conosciuto e frequentato a Roma, e che passava l’estate a Foglia, non lontano dalla mia casa di campagna a Cantalupo in Sabina. Andavo spesso a trovarlo e fu con lui che cominciai a capire i contatti fra lo spiritualismo dei primi del secolo, gli studi degli occultisti, l’arte pittorica astratta, e riconobbi che i primi quadri astratti in Europa li aveva dipinti proprio Arnaldo Ginna, anche prima di Kandinsky. Questi, per esempio, erano dati che diventavano di valore critico, che io acquisivo di prima mano, e poi li riversavo nei miei articoli per lettori che spesso rimanevano stupefatti perché non avevano pensato ai rapporti fra occultismo e futurismo. Tali rapporti li ho sottolineati fin dal mio primo libro Cinema e letteratura del futurismo dedicato ad Arnaldo Ginna e Bruno Corra, libro scritto verso il 1967-1968. Oggi quei paragrafi si sono sviluppati in un testo - a più mani - di ottocento pagine per la mostra, già citata, Okkultismus und Avantgarde von Munch bis Mondrian 1900-1915 organizzata da un Comitato Scientifico internazionale di cui ho fatto parte e che è stata tenuta alla Galleria Nazionale di Frankfurt am Main, nel 1995.
Altre scoperte, ad esempio, le ho fatte a Gorizia. Avevo la fortuna di avere uno studente, Jacki Renner, a me molto affezionato, che mi volle portare in Slovenia a Lipiza, a conoscere un artista importante, Augusto Cernigoj, nato a Trieste, ma piuttosto orientato verso il mondo sloveno. Lipiza è attualmente in Slovenia.
Corradi: Lipiza è quella città famosa per i cavalli lipizzani?
Verdone: Esatto. Renner, che venne in gita con i suoi genitori, mi portò anche a visitare i luoghi dove si allevano questi cavalli. E lì conobbi  anche Milko Bambic, un altro triestino orientato verso il mondo sloveno che volle che visitassi una sua mostra a Idrjia. Comunque, è ora inutile enumerare tutti questi personaggi. L’interessante è che, o scoprendo per me i quadri futuristi di Taj Kambara e di Seji Togo a Tokyo, o vedendo le opere di futuristi giuliani, sia italiani che sloveni, o vedendone altri del mondo europeo (per esempio visitando Lajos Kassak, a Budapest), americano, ecc., insomma la cultura mia si approfondiva in questo campo ed ero in grado di riconoscere ormai tanti artisti che ad altri erano ignoti.
Corradi: Si può dire che la tua conoscenza in materia d’arte è stata acquisita prevalentemente sul campo e di primissima mano; con gli autori, con gli artisti che erano viventi e che tu hai comunque voluto conoscere. Quando possibile, hai cercato sempre di raggiungerli e di parlarci personalmente. Ho notato, di recente, un tuo scritto nella rivista “Terzo occhio”: Aspetti del modernismo brasiliano degli anni Venti, sul quale ti sei documentato nel 2000 durante una permanenza a San Paulo.

15.  I quadri di Sciltian

Verdone: A volte ho avuto fortuna, ma la fortuna è anche favorita da un certo naturale intuito. Per esempio, devo aver raccontato in altra occasione che quando avevo fatto amicizia con i coniugi Sciltian, spesso essi lamentavano la perdita di alcuni quadri dipinti a Roma, che nelle  monografie, cataloghi o biografie dovevano venire riprodotti attraverso vecchi ritagli di giornale perché gli Sciltian non possedevano più le fotografie dei dipinti e neppure sapevano dove fossero gli originali. In un viaggio a Parigi decisi una volta di andare a visitare un museo poco noto, dedicato alla pittura armena. Nel museo i quadri erano accatastati come in uno studio disordinato: c’erano moltissime opere, alcune interessanti, altre meno. A un certo momento, proprio attaccati sul ciglio del soffitto, ho visto i tre quadri che Sciltian rimpiangeva, ne ho riconosciuto la mano, e così ho potuto avvisare la moglie, poiché egli nel frattempo era morto. Elena Sciltian finalmente ha saputo dove questi quadri erano finiti e li ha fatti fotografare. Quindi c’è stata talvolta una certa fortuna nell’avvicinare alcuni artisti, nello scoprire, e devo dire che questa mia, chiamiamola così, facoltà rabdomantica di trovare opere considerate perdute, l’ho sperimentata più volte. A me è successo di ritrovare una scultura a cui Raffaello Salimbeni teneva molto e che non sapeva dove fosse finita.
Corradi: Tu hai già raccontato in un’altra intervista il ritrovamento del busto fatto da Prampolini a Vasari. Mi riferisco alla statua in bronzo chetieni nel tuo studio. Ma c’è un altro ritrovamento che tu non hai raccontato ed è quello della statua di Salimbeni, di quel ritratto in bronzo che adesso è sul tuo terrazzo. Come è andata?

16.  Il detective del futurism

Verdone: Il ritrovare opere è forse dovuto a una certa qualità che non è né di ordine critico né altro, ma forse rabdomantico, da detective. E poi, come tu stessa mi ricordi, diceva Napoleone: «Io non voglio attorno a me Generali bravi, voglio Generali fortunati». In molti casi posso dire di essere stato fortunato. Spesso ho rintracciato documenti considerati perduti, disegni, scritti di futuristi e ciò è avvenuto più di una volta. Ho ritrovato opere d’arte che non si sapeva più come recuperare. Racconterò qualche caso. Uno fu quello del mio amico Raffaello Arcangelo Salimbeni, che lavorava spesso a Pietrasanta in laboratori frequentati dagli scultori e dove aveva lasciato una scultura in terracotta, un ritratto dedicato aLorenzo Ercole Lanza, nostro comune amico di Siena, di cui ho parlato in altra occasione. Salimbeni, ormai chiuso in casa, semi-paralizzato, impossibilitato a viaggiare, mal ridotto di nervi, era incapace a ritrovarla. Voleva recuperarla, mio tramite, con la promessa di lasciarmela. Mi dette tale incarico sapendo che io andavo spesso in villeggiatura con la famiglia a Forte dei Marmi. Ci portavo i bambini e ogni volta, per quattro o cinque anni, andando a Forte dei Marmi seguivo varie tracce per ritrovare questa statua, ma invano. Finalmente un giorno trovai l’informazione giusta e arrivai in cima a una montagna delle Alpi Apuane, in una località che si chiama Peralla, o Peralta, dove aveva lo studio una scultrice straniera, certa Fiore, che avevo conosciuto a casa di Lorenzo Ercole Lanza. Arrivando nella sua casa, nel suo giardino (ma lei era assente, era partita per Londra) finalmente vidi in mezzo alle foglie, nel parco, come un dio dei boschi, il busto in bronzo di Lorenzo Ercole Lanza che avevo cercato per anni. Allora trionfalmente scrissi a Raffaello che lo avevo ritrovato. Mi scrisse: «Cerca di fartelo restituire, perché quello non è suo, ma è mio, e se riesci ad averlo tienilo tu». Ritornai alla carica con la scultrice, ma ci volle del tempo per convincerla a restituire la statua fino a che poi essa mi fu restituita attraverso un altro artista che viveva a Roma e che fece da tramite. Questo fu uno dei miei primi ritrovamenti da detective.
Un altro è quello che ho raccontato a proposito di Sadun che aveva, durante il periodo partigiano, fatto circa cinquanta disegni della Resistenza e dei Partigiani. Questi disegni, che Piero mi aveva mostrato, ma di cui non aveva mai rivelato ad altri l’esistenza, alla sua morte erano scomparsi. Io ne chiesi notizia ai familiari ma nessuno ne sapeva niente: allora, portato dal mio, chiamiamolo così, “fiuto”, con una sola telefonata rintracciai l’uomo che aveva i cinquanta disegni, quasi lo trovai sorpreso. Mi disse: «Sì, Professore, li ho io, ma avevo intenzione di restituirli». «Va bene, allora li consegni alla sorella di Piero». Così furono restituiti e mostrati per la prima volta al Palazzo Pubblico di Siena, con presentazione in catalogo scritta da me.
Corradi: Assieme ai casi che hai raccontato, della statua di Salimbeni, dei disegni di Sadun, dei quadri di Sciltian, credo che il caso più interessante sia quello della scultura, del ritratto scultoreo fatto da Enrico Prampolini al drammaturgo messinese Ruggero Vasari. Di questo ritrovamento abbiamo già parlato in altra occasione. Tutto questo dimostra che oltre alla  perspicacia o alla sensibilità critica, c’era qualche cosa in te che ti portava a rinvenire cose, a riscoprire valori rimasti quasi sepolti, come avvenne per quel marionettista boemo, Richard Teschner, di cui hai già raccontato. Effettivamente debbono essere state le tue innumerevoli escursioni all’estero che ti hanno permesso di conoscere sempre più autori, pittori, e quindi conoscendoli distinguerli gli uni dagli altri e  crearti quella capacità visiva che è tipica dei critici d’arte.
Verdone: Certo, un Giulio C. Argan, un Cesare Brandi, o un Federico Zeri, sono arrivati al massimo della capacità di conoscenza, di penetrazione, di riconoscimento di opere, anche se talvolta può capitare che taluno di essi si sia sbagliato. Infatti  più di una volta ho rilevato che Argan non aveva capito molto del Futurismo, almeno dal 1918 in poi, il che non è poco dato che solamente il fenomeno dell’aeropittura è un fenomeno di importanza mondiale e non capisco come sia sfuggito a un grande critico come Argan. Ripeto ciò per asserire che qualche volta anche i “grandi” critici hanno commesso grossi errori. Ma questo è normale, e ne ho commessi certamente anche io, che “grande” non mi considero.
Corradi: I cataloghi e le collaborazioni a mostre non sono soltanto quelle che tu hai citato in questa intervista. Mi piacerebbe poterne documentare anche altre.
Verdone: Ovviamente in interviste di queste tipo vengono alla mente tante cose e altre magari le ricordiamo disordinatamente o un po' più tardi. Per esempio, ora, dopo questa lunga chiacchierata, mi sovvengo anche di altre collaborazioni. In una mostra su Enrico Prampolini, presentata pochi anni fà al Palazzo delle Esposizioni di Roma, in Via Nazionale, mi sono occupato in particolare del settore concernente Prampolini e lo spettacolo, Prampolini e il cinema, e ho scritto un saggio nel catalogo della mostra. Altrettanto ho fatto per la mostra che fu tenuta all’Accademia di Francia, a Trinità dei Monti, sul tema Casa Balla e il Futurismo a Roma, e in quella occasione trattai della collaborazione di Balla e di altri futuristi nel campo dello spettacolo e particolarmente nel teatro sintetico futurista. Poi ci sono state molte altre mostre sul Futurismo, specialmente nel 1994 per il cinquantenario della morte di Marinetti. Ho collaborato a mostre sul Futurismo fatte a Roma, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, alla Biblioteca Nazionale di Napoli, a Palermo, Catania, Livorno. Ai convegni di Firenze e di Praga siamo andati assieme.
Un’altra collaborazione che vorrei ricordare riguarda la presentazione di una bellissima collezione di opere grafiche espressioniste. La mostrapartì da Düsseldorf, poi giunse a Siena ed in altre città. La presentai con un discorso anche in un sodalizio culturale di Orosei, in Sardegna e ci venisti anche tu. Fui invitato a scrivere una introduzione teorica sull’espressionismo, sui caratteri che lo distinguevano dalle altre avanguardie: cosa che ho fatto particolarmente volentieri perché, dato che scrivo sempre di Futurismo, questa è stata una buona occasione per dimostrare che le mie conoscenze non si limitavano solamente al Futurismo, ma anche a movimenti stranieri, come, appunto, l’espressionismo tedesco. Il titolo del mio saggio fu: La poetica della deformazione.
Corradi: Mi ricordo quella bellissima mostra. Conteneva principalmente libri dell’espressionismo tedesco, libri già rari in sé perché quando erano pubblicati venivano stampate al massimo due o trecento copie, che poi gli amici si spedivano l’uno con l’altro. Ma soprattutto questi libri sono diventati ancora più rari perché i Nazisti ne hanno fatto fare incetta e li hanno bruciati. Le poche copie esistenti sono diventate rarissime. Nella vostra mostra sulla grafica espressionista c’erano veramente cose eccezionali. Ricordo che il catalogo, per essere presentato in Germania, era stato redatto sia in tedesco che in italiano. Quando la mostra si tenne a Orosei per iniziativa di Nanni Guiso, venne visitata da numerosi turisti tedeschi che si trovavano per l’estate in Sardegna e con sorpresa degli organizzatori, che erano sicuri che del catalogo in lingua tedesca non ne avrebbero venduta nemmeno una copia, ha avuto maggiore diffusione proprio l’edizione tedesca, più di quella italiana. Il catalogo, edito a Stoccarda, è intitolato Expressionismusnell’edizione tedesca ed Espressionismo nell’edizione italiana.
Di recente sei stato il presentatore di altre mostre. Vuoi parlarne?
Verdone: Una è stata dedicata a un futurista di Macerata, che nel 1938-1944 fu aeropittore: Wladimiro Tulli. Contemporaneamente ho preparato un saggio su Pippo Oriani, pittore futurista torinese. Anzi ho fatto recuperare un suo film del 1932 e ne ho curato il catalogo per la Mostra del Film Ritrovato di Bologna. Il titolo del film è Vitesse (Velocità). Mi sono occupato di aeropittori futuristi per una mostra in Portogallo, e di un’altra, a Roma, su Angelo Rognoni e Vinicio Paladini.
Corradi: Abbiamo parlato più volte di una tua attività di critico nel campo delle arti figurative. Hai preparato cataloghi, hai operato in varie sedi, ma mi sembra che sei stato molto attivo non soltanto come organizzatore, ma anche come collaboratore di  riviste specializzate di critica d’arte. Ne vuoi parlare?

17.  Arti  senza frontier

Verdone: Intanto, a Roma, sono stato spesso invitato a collaborare a riviste che uscivano qualche decina di anni fa’, come “Il Margutta”, e lì ho scritto alcuni articoli sia sul mio ritrovamento del ritratto di Vasari, sia sulle pitture dell’armeno Martiros Sarian, ed anche su altri temi. Poi, al tempo in cui mi interessavo molto alle caricature e ai disegni, ho collaborato alla rivista “Didattica del disegno”, diretta da Gaspare De Fiore, un cattedratico della Facoltà di Architettura dell’Università di Roma. La rivista si stampava a Brescia e vi  ho fatto esami abbastanza approfonditi di pittori e disegnatori come Rosa Rosà, Ivo Pannaggi, Arnaldo Ginna, Klee. Ho collaborato anche a una rivista di Milano per diversi numeri, il nome è “Arte 2000”. Dopo queste collaborazioni, negli anni Settanta, sono stato chiamato a far parte del comitato scientifico e redazionale di una rivista autorevole di Roma, che ho già citato altrove, la rivista “Qui arte contemporanea” della Editalia, cui collaborava anche Piero Sadun. La rivista poi è finita. Era una rivista d’avanguardia. Diceva un poeta francese, Pierre Albert-Birot, che «le riviste d’avanguardia devono morire giovani». Dopo questa collaborazione, sono stato invitato a far parte del comitato redazionale della rivista “Terzo occhio” di Bologna. A dire il vero dapprima ho iniziato come semplice collaboratore. Nel numero uno della rivista - ricordo - parlai di un artista tedesco che poi si era trasferito in America, Richard Lindner; poi scrissi anche un articolo su Piero Sadun e i suoi disegni partigiani. Per qualche tempo non collaborai; poi il coordinatore della rivista, Giorgio di Genova, mi ha invitato a far parte proprio del comitato redazionale, partecipando alle sue riunioni periodiche, e da allora la mia attività in questa rivista si è incrementata tanto che ho scritto diverse decine di saggi. In seguito è venuta l’idea, all’editore e a me, di raccogliere tali studi in un libro. Abbiamo fatto l’inventario ed è emerso che la raccolta sarebbe stata troppo voluminosa, perché ormai gli articoli erano quasi un centinaio, non solo, ma anche cospicui per consistenza, tanto che sarebbe stato necessario un gran numero di pagine. Abbiamo deciso di ridurla drasticamente, al cinquanta per cento. Comunque lo spirito, il carattere, di questa pubblicazione è rimasto consacrato nel titolo stesso del libro, e cioè Arti senza frontiere: dove credo si ripetano quelle tendenze, e quei metodi che hanno distinto il mio lavoro critico, non soltanto nel campo delle arti figurative, ma anche nel campo del cinema, del teatro, e via dicendo.
Corradi: Registro, per inciso, che il volume è stato pubblicato dalle Edizioni Bora di Bologna.
Come tu hai spesso detto e ripetuto, non si tratta soltanto di arti senza frontiere tra un Paese e l’altro, ma senza frontiere tra una cultura el’altra, tra una espressione artistica e l’altra, verso quel tuo tema preferito: l’arte totale.
Verdone: Tutto questo, ancora una volta, mi viene dalla mia frequentazione dei futuristi e dal mio studio delle arti nell’area del movimento futurista. Credo di aver già ricordato che nell’Ottocento Charles Baudelaire sosteneva la “corrispondenza” delle arti. Il futurismo ritengo che abbia fatto un passo avanti: non più soltanto “corrispondenze” delle arti, fra pittura e letteratura, corrispondenze possibili, ma addirittura “compenetrazione”: quindi dalla corrispondenza alla compenetrazione delle arti. Un’arte che entra dentro un’altra. Un’espressione che si avvale anche di altre espressioni. Questa è una caratteristica dell’avanguardia, e credo che il maggiore sostenitore ne sia stato proprio Marinetti.
Diceva Giuseppe Mazzini: «Occorre chi rannodi ad un tempo tutte le arti, manca e verrà». Fu anche la divisa del mio amico Arnaldo Ginna, ed io l’ho sempre tenuta presente.

18. Altre mostre di opere futuriste
   Corradi: Per quel che riguarda le mostre d’arte futurista organizzate da te o in collaborazione con altri galleristi e colleghi, in Italia e all’estero, illustrate anche da speciali cataloghi, quali ritieni che siano da segnalare particolarmente? Negli anni 2000 e 2001 hai lavorato molto.
Verdone: Alle mostre di cui mi sono occupato in anni precedenti, spesso in compartecipazione con altri esperti e critici, a Roma, Firenze, Milano e Napoli, o individualmente per Acquaviva, Johannis, Benedetto, debbo aggiungere, nell’anno 2000, quella sui disegni futuristi organizzata dalla Galleria Solarte di Roma; quella sull’Aeropittura a Lisbona, collaborando con De Rosa; quella su Alberto Savinio a Budapest (ma qui l’accento era sulla metafisica); quella su Balla, in collaborazione con Renato Miracco per la selezione e il catalogo, a San Paolo del Brasile; quella sul Futurismo in Toscana, a Livorno, anche qui in collaborazione e partecipazione al Comitato Scientifico; e quella, molto ampia, presentata al Palazzo delle Esposizioni di Roma: Futurismo 1909-1944, datazione che io stesso avevo fissato fin dal 1970. La mostra brasiliana fu inaugurata dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, che ebbi il privilegio di accompagnare, e dal Governatore di San Paolo Mario Covas. Il catalogo era trilingue e la mostra destinata a un complesso iter negli Stati dell’America Latina, fra cui Uruguay e Messico.
Nel 2001 ho scritto un catalogo per i bozzetti scenografici di Alfredo Furiga, in una mostra romana, ed ho fatto parte del Comitato Scientifico della mostra “Realismi”, curata da Luciano Caramel e ospitata dal “Meeting dell’Amicizia” di Rimini nei palazzi dell’Arengo e del Podestà. Era dedicata alle arti figurative, alla letteratura e al cinema. Il settore cinematografico era affidato a Luca e Mario Verdone. A Lucera (Foggia) ho collaborato, dopo due manifestazioni indette al Teatro Valle di Roma e alla Pergola di Firenze dall’Ente Teatrale Italiano (ETI), a una mostra dedicata al caricaturista teatrale Umberto Onorato (presentato anche con un mio documentario del 1956: La vita teatrale. Album di Umberto Onorato). Curiosamente, anche Onorato ebbe una marginale attività “futurista”.
In recenti mostre su temi come “Dal futurismo all’astrattismo”, sull’arte italiana degli anni Cinquanta, sul pittore e fotografo Luigi Veronesi, ho contribuito ove con studi critici, ove con opere da me possedute (Sadun, Scialoja, Veronesi). Per una mostra sul Futurismo organizzata a Roma nel dicembre 2002 da Edieuropa (il nome suo, in precedenza, era Editalia) ho prestato opere di Depero, Ginna, Prampolini, Pannaggi.